Ad altezza di bambino

Sin dalle origini il cinema ha fatto ricorso ai bambini come interpreti, a volte semplicemente per raccontare il periodo della fanciullezza, altre utilizzando l’infanzia per arrivare a parlare degli e agli adulti.
Se durante l’epoca fascista l’opera cinematografica si era imposta come mezzo di propaganda per dimostrare quanto l’Italia fosse felice e florida, con la fine della seconda guerra mondiale il bisogno di parlare
della realtà si fece sempre più necessario ed è così che nacque il filone del Neorealismo.

Dovendo cogliere e trasporre su pellicola la miseria della realtà in maniera immediata, i bambini assunsero sullo schermo sempre maggior rilievo: il cinema neorealista voleva mostrare la verità, le difficoltà della
vita quotidiana e la miseria del popolo nel dopo guerra, utilizzando molto spesso attori non professionisti e gente comune, tra cui, appunto, molti bambini, ergendoli a simboli di povertà e emarginazione sociale in un’Italia completamente da ricostruire.

Antesignano tra tutti i registi di quell’epoca che successivamente aderirono al Neorealismo fu Vittorio De Sica che nel 1943 girò I bambini ci guardano, pellicola basata sull’intensa interpretazione di Luciano
De Ambrosis (Pricò), sulla sua solitudine e i sui suoi occhi innocenti che osservano dolorosamente la dissoluzione della sua famiglia a causa dell’adulterio della madre. Questo film rappresentò per De Sica l’inizio di una serie di film dedicati alla condizione dell’infanzia, come Sciuscià e Ladri di Biciclette, magistralmente raccontati anche grazie al sodalizio con Cesare Zavattini.

In Sciuscià (1946) i due giovani protagonisti (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) vennero presi letteralmente dalla strada e la pellicola risulta ancora oggi una delle più palpitanti creazioni del duo
De Sica-Zavattini, che con un tocco poetico e delicato documentano la difficile vita di due ragazzini lustrascarpe, la solitudine nelle carceri, una società che ignora e non comprende le difficoltà delle fasce più povere, ma soprattutto ci viene raccontata la loro amicizia e le loro speranze, incarnate in un favoloso e favolistico sogno di avere un cavallo bianco.

Nel 1948 vide la luce forse il manifesto per eccellenza del Neorealismo Ladri di biciclette sempre di Vittorio De Sica, che conserva intatta ancora oggi la forza della struggente odissea di Antonio Ricci
e del suo piccolo Bruno (Enzo Staiola), il dramma di un uomo che vede l’abisso più cupo scagliarsi sul futuro (di mera sopravvivenza) di suo figlio e della sua famiglia. Roma e i suoi abitanti, il dialetto
parlato da tutti, sono lo sfondo ideale della ricerca spasmodica della bicicletta che gli è stata rubata, unico mezzo di lavoro che gli permetteva un sostentamento: portando sempre con sé il figlio

Bruno, De Sica ripropone una specie di copia de Il monello, colpendo lo spettatore con l’espressività genuina del bambino, fatta anche di piccoli gesti come strette di mano spontanee verso il padre disperato e umiliato dalla vita, quasi come se fosse il bambino stesso in quel momento a ergersi come forza “adulta” che dà pace e consolazione.

Un altro regista neorealista che diede molta attenzione alla figura dei bambini fu Roberto Rossellini con la sua Trilogia della guerra antifascista composta da Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948): quest’ultima pellicola in particolare racconta le vicende del giovane Edmund Meschke (nome vero dell’attore, incontrato in un circo nel quale si esibiva come acrobata), un ragazzino che nel cumulo di macerie che era la Berlino occupata dagli alleati nell’immediato dopo guerra, vive di espedienti per mantenere il padre invalido.

La fine del Neorealismo si fa solitamente coincidere con l’uscita di Bellissima (1951) di Luchino Visconti, con protagoniste Anna Magnani e la piccola Tina Apicella, in una pellicola all’avanguardia in
grado di anticipare, come succede solo nei capolavori, l’attualissimo tema della forsennata ricerca del successo, qui rappresentata da una madre che tenta di realizzare attraverso la figlia i suoi sogni
frustrati e delusi.

Ma il regista per antonomasia dei bimbi del cinema italiano fu sicuramente Luigi Comenicini, che ha dedicato più di dieci film all’infanzia, ripercorrendo l’evoluzione storico sociale del paese dal secondo dopo guerra fino agli anni Novanta.

“Evidentemente è la mia predilezione costante. Non so perché, non è un programma che mi sia prefissato (…) Mi sembra che l’infanzia abbia una caratteristica fondamentale, di essere un periodo di grande
libertà dell’individuo. Il processo attraverso cui l’educazione scolastica e familiare tende a soffocare questa libertà è drammatico. Il solo mezzo per liberare l’infanzia è proprio mettersi al suo livello.”

Sono stati molto numerosi, quindi, i piccoli interpreti dei suoi film, a partire dagli scugnizzi sbandati del suo primo lungometraggio neorealista del 1948 Proibito rubare, dove un giovane Adolfo Celi divide il ruolo
di protagonista con un gruppo di bambini napoletani presi direttamente dalle strade per parlare della situazione partenopea del dopo guerra. La bravura di Comencini con gli attori bambini nata con questa pellicola si ripropone nel 1957 con il film La finestra sul Luna Park, ma è forse con Incompreso nel 1966 che il regista tocca la sua vetta più alta. L’interpretazione di Stefano Colagrande nei panni di Andrea, figlio maggiore di un console, continuamente ignorato dal genitore insensibile che non ne comprende i bisogni e cerca di responsabilizzarlo esageratamente nei confronti del fratellino più piccolo, rimane dolorosamente scolpita nei ricordi di chiunque abbia visto questa pellicola. Incompreso diede il via al filone dei cosiddetti “lacrima movie” italiani, tra i quali è da ricordare anche L’ultima neve di primavera, un film del 1973 diretto da Raimondo Del Balzo.

Ovviamente non si può parlare di Luigi Comencini senza citare Andrea Balestri e il suo ruolo ne Le avventure di Pinocchio del 1972, ponendo l’attenzione sul rapporto padre-figlio, sullo status di orfano (in questo caso di madre) e sul duplice desiderio di autonomia e dipendenza dei bambini.

Luigi Comencini non abbandonò mai la tematica dell’infanzia, nemmeno negli ultimi suoi lavori, come in Un ragazzo di Calabria (1987), dove nel finale il regista ci regala un’immagine serena del protagonista, pronto a riscattare simbolicamente il dolore di tutti i bambini dalle vite difficili, incoraggiandoli (soprattutto quelli del Sud Italia) a sperare sempre in un cambiamento migliore.

Durante gli anni Sessanta altri registi provarono ad indagare il rapporto tra genitori e figli, come Mauro Bolognini nel 1962 con Agostino e Dino Risi nel 1964 ne Il giovedì, esempi diversi su come trattare l’argomento della genitorialità, entrambi riuscitissimi.

Durante gli anni ‘70 la figura del bambino venne inserita anche in numerose pellicole a tinte gialle/horror, nelle quali spiccò la piccola attrice Nicoletta Elmi, che collaborò con registi come Dario Argento e Mario Bava. Negli anni più recenti altri registi utilizzarono l’espediente del punto di vista del bambino, anche e soprattutto per parlare del mondo degli adulti, come ad esempio Mario Monicelli in Parenti Serpenti e Lina Wertmüller in Io speriamo che me la cavo, entrambi del 1992.

La fanciullezza vista come un momento limitato ed evanescente dell’esistenza umana ma anche come un periodo fondamentale per la crescita di un individuo, ha quindi portato negli anni molti importanti autori del cinema italiano a descrivere i bambini in ogni modo: dolci, sfruttati, emarginati ma anche pestiferi e perversi. D’altronde non bisogna mai dimenticare che i bambini non sono altro che piccoli esseri umani e che in ogni adulto si nasconde ancora quel piccolo individuo, con i dolori e le gioie che l’hanno segnato durante l’infanzia.

 

SPILIMBERGO > MARTEDÌ 7 GIUGNO > ore 20.45 > Cinema Miotto

DEDICATO A LUIGI COMENCINI

PICCOLI ATTORI DEL CINEMA ITALIANO

Conversazione con Claudio De Pasqualis, Blasco Giurato e Daniele Nannuzzi
in collegamento Cristina Comencini, Francesca Comencini e Carlo Calenda
e con Simone Giannozzi e la partecipazione straordinaria di Giovanna Ralli

A seguire INCOMPRESO di Luigi Comencini

 

CODROIPO > GIOVEDÌ 9 GIUGNO > ore 21.00 > Cinema Benois De Cecco

L’ARMINUTA di Giuseppe Bonito

Luca Pacilio conversa con Alfredo Bertò

 


Cartoline dall’Italia

Luci e ombre dei film sulle vacanze

Uno sguardo all’Italia e ai suoi cambiamenti dalla spiaggia, sotto l’ombrellone

Il mare e le ferie estive sono da sempre un pilastro della vita e della cultura italiana e fin dalle sue origini il nostro cinema è stato uno dei principali narratori degli aspetti tipici dell’italiano “medio” in vacanza.
L’idea di un certo tipo di villeggiatura si è sviluppata e modificata nel corso della storia del nostro paese e il cinema ne è stato lo specchio principale, raccontando le vacanze prima come occasione destinata a  pochi privilegiati, poi come momento di spensieratezza di massa durante gli anni del Boom economico per diventare poi teatro di inquietudini borghesi di una società in cambiamento o palcoscenico di gialli e thriller negli anni ‘70.

Nella sua natura di luogo trascendente rispetto alla vita ordinaria, la spiaggia diventa la postazione privilegiata per analizzare il comportamento di un popolo, in questo caso quello italiano, un osservatorio
speciale per scrutare i modelli di vita vacanzieri prima di una stretta cerchia di personaggi abbienti e poi delle masse, che porteranno la vita balneare estiva a diventare simbolo incontrastato sia in positivo che in negativo di una parte della nostra italianità.

Vediamo l’Italia di inizio secolo grazie allo sguardo retrospettivo di Luchino Visconti con Morte a Venezia (1971), quando la villeggiatura era di lunghi mesi, elegante, aristocratica, piena di ossessioni
decadenti in una Venezia raffinata ma già fragile; grazie a Valerio Zurlini ci immergiamo nel 1943 col il suo intenso Estate Violenta (1959) e sulle spiagge di Riccione ritroviamo il ritratto di un’Italia
benestante che cerca di crearsi un piccolo angolo di paradiso, lontana dagli scempi della guerra, con amori contrastati e intensi ma purtroppo con la realtà che inevitabilmente busserà nella vita di tutti.

Agli inizi degli anni ’50 la ripresa economica avanza e entriamo sempre più in tempo di commedia, anche se una menzione speciale spetta a La spiaggia (1954) di Lattuada, dove la location vacanziera,
luogo di riposo e divertimento, viene usata per mettere in mostra il perbenismo e il moralismo ipocrita della medioborghesia di quegli anni, pronta a puntare il dito e a giudicare un’amorevole madre in vacanza la cui unica colpa è quella di essere una prostituta.

La voglia di leggerezza contagia tutti, soprattutto il cinema e soprattutto in estate: con i primi segnali di ripresa economica la commedia si appropria del tema balneare e a far da apripista ci pensa
Luciano Emmer con Domenica d’agosto (1950), un film neorealista quasi documentaristico nel quale si incrociano le storie di una variegata fetta di popolazione romana che abbandona la città per recarsi in massa a Ostia in cerca di refrigerio.

Il film di Emmer sarà l’esempio per molte delle successive commedie balneari, gli “spiaggiarelli”, in gran parte dei casi più scanzonati e leggeri rispetto al capostipite. Pinne, fucile e occhiali, tipi da spiaggia e bellezze in bikini, corteggiatori e corteggiate non sempre con successo, in quegli anni approdano sullo schermo Racconti d’estate (1958) di Gianni Franciolini, Ferragosto in bikini (1960) di Marino Girolami, Diciottenni al sole (1962) di Camillo Mastrocinque e il film quasi a episodi Frenesia
dell’estate (1964) di Luigi Zampa.

Una delle pellicole più riuscite del periodo è indubbiamente Leoni al sole (1961) di Vittorio Caprioli, qui anche attore: in apparenza una commedia ridanciana (con una spassosissima Franca Valeri) ma
che nasconde una malinconia quasi struggente, con echi felliniani a quei vitelloni riminesi qui visti come dei leoni marini di Positano, pigri e furbi, rappresentanti del bestiario maschile estivo che decide
di passare il tempo tra l’ozio e la conquista amorosa, per poi tornare sul finire dell’estate alle proprie speranze frustrate e ai sogni traditi.

Il cinema diventa via via rappresentante anche delle prime crepe del Boom, di quell’iniziale benessere che lascerà sempre più spazio alle inquietudini dei cambiamenti che faranno da apripista al malessere
economico e morale dei decenni successivi, con Dino Risi in testa a tutti con Il sorpasso (1962) e L’ombrellone (1965), in queste due pellicole perfetto narratore dell’italianità in crisi. Nella prima tratteggerà
il profilo di due uomini soli, il loro atteggiamento speculare durante un viaggio in macchina che sarà più che altro un rito di passaggio di un ragazzo che ha paura di crescere e di un uomo che non è voluto
crescere, mentre nella seconda stravolgerà le risate da commedia balneare trasformandole in un inquietante weekend insieme a Enrico Maria Salerno, giunto in Riviera per andare a trovare la moglie (Sandra
Milo) in villeggiatura, circondata da personaggi superficiali immersi in riti sociali ipocriti, con il carnaio sulle spiagge e le canzonette a tutto volume sparate da ogni altoparlante, crisi di coppie e discorsi inutili
per riempire un vuoto intellettuale imbarazzante e più che mai attuale.

Un’attrice importante che a questo periodo deve tantissimo è indubbiamente Catherine Spaak, ninfetta scaltra, innocente e crudele al tempo stesso.

Ne La voglia matta (1962) di Luciano Salce l’ormai maturo e annoiato ingegnere Ugo Tognazzi incarna perfettamente l’irripetibilità della giovinezza, innamorato della sedicenne Spaak. Il conflitto generazionale
è lampante tra lui con la sua Spider e il figlio in collegio e la compagnia di lei, in vacanza, dedita solo ai festeggiamenti e alla spensieratezza; lui borioso e grottesco, spesso paternalista ma pronto a subire angherie e umiliazioni pur di sentirsi ancora giovane, lei leggera e capricciosa o, più semplicemente, ancora giovane.
Ritroviamo Catherine Spaak in un film di Florestano Vancini, La calda vita (1964), ambientato in Sardegna tra Cagliari e Villasimius, in uno spaccato sui nuovi giovani dell’epoca, sempre più divisi tra interessato materialismo e sentimenti puri, dove innocui giochi di seduzione tra coetanei e il solito quarantenne malato di lolitismo, porteranno a tragiche conseguenze.

Intanto gli anni ’70 si fanno sempre più vicini e se da commedia scanzonata già eravamo passati a una forte vena malinconica, tra la fine e l’inizio del nuovo decennio le tinte diventano sempre più drammatiche e fosche nonostante il mare a far da contorno.

Nella pellicola L’estate (1966) di Paolo Spinola la borghesia ormai è allo sfascio morale, la noia e l’inquietudine di una coppia alla deriva su uno yatch al largo nelle acque sempre della Sardegna diventano un pruriginoso triangolo amoroso tra lui, lei e la figlia di lei, ripresentando in chiave diversa e più drammatica l’attrazione dell’uomo maturo in crisi di mezza età verso il ricordo tangibile della propria giovinezza.

Arriviamo così alla fine degli anni ’60 e ritroviamo Florestano Vancini con Violenza al soleun’estate in quattro (1969), un dramma balneare dai toni malinconici e sognanti in location marittime da incanto, arricchito nel cast dal duo svedese bergmaniano formato da Bibi Andersson e Gunnar Björnstrand, in un film capace di coniugare il sole e le tenebre: due coppie, un’isola, il sesso, l’amore, l’alchimia e le carte che rischiano di mischiarsi in un gioco pericoloso con un finale omicida.

A cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 il cinema balneare diventa anche sfondo di trame del nostrano genere chiamato “giallo all’italiana”, pellicole piene di sole e mare che fanno da sfondo a omicidi e indagini, come ad esempio 5 bambole per la luna d’agosto di Mario Bava del 1970 e Paranoia di Umberto Lenzi sempre del 1970.
Chiudiamo gli anni Settanta con un film del 1977: è sempre domenica, è sempre agosto, siamo sempre a Ostia, ma non stiamo più parlando delle atmosfere dolceamare del neorealismo di Luciano Emmer da cui siamo pratica mente partiti, ma di Casotto di Sergio Citti. Il “Casotto”, lo spogliatoio comune balneare, è l’unico luogo scenico dell’azione ma anche metafora della grande confusione dell’Italia degli anni ‘70.

Diversi personaggi si incrociano nella cabina collettiva in un film corale che ci parla da uno spazio delimitato, quasi intimo, nel quale far emergere la propria natura spesso anche animalesca e nel quale tramare le proprie mosse da fare all’esterno, un luogo quindi interiore e non solo inteso come la struttura da spiaggia, che rivela le reali pulsioni e i segreti dell’umanità in questione.

Sergio Citti ci regala una sanguigna, tagliente e a tratti feroce analisi antropologica di una società di persone modeste, schiette e ingenue, tratteggia in maniera grottesca, naif e sopra le righe le loro miserie, i loro sogni e bisogni, visti con un occhio disilluso ma candido, giudicante quasi, ma con un po’ di amara tristezza.
Più ci allontaniamo dagli anni d’oro del cinema italiano, più inizia a nascere un’operazione nostalgica nel ripensare alle vacanze dei favolosi anni Sessanta: è quello che farà Carlo Vanzina nel suo fortunato Sapore di mare del 1983, che apre il filone vacanziero degli anni Ottanta. Partendo da una vacanza estiva del 1964 a Forte dei Marmi, il regista intreccia le storie di diverse famiglie e in particolar modo dei loro figli, per poi mostrarceli diciotto anni dopo, nel 1982, ormai cresciuti e inseriti nella società. È il momento per fare i conti di quel che è rimasto delle loro lontane promesse, ormai solo amari ricordi.

Non è raro che molto spesso i film vacanzieri, soprattutto con protagonisti giovani, finiscano con un gran temporale che segna il ritorno in città.

È finita l’estate, è finita la spensieratezza.

 

SPILIMBERGO > MERCOLEDÌ 8 GIUGNO > ore 20.45 > Cinema Miotto

Conversazione di Gabriella Gallozzi con Enrico Vanzina e Claudio Zamarion A seguire TRE SORELLE di Enrico Vanzina

 

SPILIMBERGO > GIOVEDÌ 9 GIUGNO > ore 21.00 > Cinema Miotto
Gabriella Gallozzi conversa con Lorenzo d’Amico De Carvalho
e la straordinaria partecipazione di Mariagrazia Cucinotta

A seguire GLI ANNI BELLI di Lorenzo d’Amico De Carvalho

 

SPILIMBERGO > VENERDÌ 10 GIUGNO > ore 10.30 > Cinema Miotto
Film GIORNATE DI SOLE di Guido Galanti

Introduce Carlo Gaberscek

in collaborazione con La Cineteca del Friuli

 

SPILIMBERGO > DOMENICA 12 GIUGNO > Cinema Miotto

TUTTE LE NOSTRE ESTATI

Video di Oreste De Fornari